TESTI CRITICI

HANNO SCRITTO DI LEI: 
 Beatrice Buscaroli, Stefano Del Magno, Maria Luisa De Santis, Andrea Emiliani, Alessandro La Motta; Fernando Lanzi, Gioia Lanzi, Carlo Micheli, Franchino Falsetti, Silvia Fornasari, Manuela Menta, Simona Pinelli, Marina Sangiorgi, Luca Telò, Angela Troilo, Michela Turra, Pier Luigi Visci.
La ricerca di un volto
Nel dittico di Roberta Dallara torna la coppia: un interno vuoto, un divano e una poltrona, altri segni di presenza appena scomparsa, o da secoli. Il vuoto è animato da oggetti e citazioni: un libro, un guanto, una calza, appunti che raccontano l’assenza. L’umano è altrove, restano solo tracce, impronte, indizi.
Beatrice Buscaroli, “La ricerca di un volto”
(catalogo “Omaggio a Teresa Gamba Guiccioli”)
Roberta Dallara focalizza la propria attenzione su frammenti di interni disabitati, pervasi tuttavia dalla presenza di sè, palpabile, avvertibile.
Indizi minimali disseminati lungo l’iter narrativo: una maglietta stesa ad asciugare sul balcone, il pizzo sul sedile della seggiola, lasciano intendere il gioco sottile dell’autrice. Proprio l’assenza conclamata della figura femminile ne evoca la presenza, abbattendo in tal modo il muro pretestuoso innalzato tra realismo e astrazione.
                                                                                   Carlo Micheli, 8 donne 8, Figurabilia
Via, via, via disse l’uccello:
il genere umano non può sopportare troppa realtà.
[T.S. Eliot “Quattro Quartetti”]
Non so se Roberta Dallara sia d’accordo con il grande poeta.
E’ vero: nella sua tela c’è tutto il grave del vivere, donne sorprese nelle loro stanze in dolente riposo, in accorata preghiera, nello sguardo che si protende alla finestra, oltre il punto di fuga dei tetti. Chiavi, bollitori come “oggetti di scena” e – icone dei nuovi Dei – cartelloni di film che assistono dai muri. Si, questo mondo, questa realtà – anche se Monica e Cinzia sorridono alla festa – non è sopportabile “in sé”. Proprio qui, sull’”in sè” che Roberta lancia – timida, spavalda – il vivo colore della sfida. Oltre il chiuso delle stanze e delle apparenze, oltre il viluppo dei pensieri, la realtà è
misteriosa promessa. Ci sarà del vino nuovo anche per una vecchia, ancora una volta la terra offrirà la perfezione della cipolla e delle rose.
Roberta vince qui: nel suo dipingere non c’è né graziosa maniera né cortese consolazione, brilla solo lo sguardo che, proprio perché guarda, capisce. Che la realtà si può sopportare perché – misteriosamente, ostinatamente – porta.
Stefano Del Magno
La tenerezza delle cose
Della pittura di Roberta Dallara colpisce soprattutto la tenerezza. Lo sguardo pieno di tenerezza verso il reale. La luce bacia il tappeto blu. Gli scalini brillano illuminati, finalmente scoperti, la luce della finestra accarezza il pavimento. Le nature morte di Roberta sono vive: la tovaglia a quadretti bianchi e rossi, la tazza con le uova, sembrano pulsare, risplendono di vita. Le cose sono buone, e belle. Questa visione non è scontata nella pittura contemporanea, che si presta all’insinuazione metafisica che le cose esistano soltanto come noi le percepiamo, o che non esistano del tutto (G. K. Chesterton). E quando le cose ci sono, la realtà rappresentata è brutale nella sua oggettività. Molta pittura, realista o iperrealista, si prefigge di sottolineare ciò che è più inquietante, grottesco, deforme o deformato. Oppure rappresenta il dato della realtà appiattito sul suo aspetto materiale, come se avesse una sola dimensione. Come se la realtà non avesse consistenza, storia, destino. Invece per Roberta anche il pesce crudo (che ha i toni del grigio e del blu, appunto della crudezza,) è già quasi caldo, è pronto sullo strofinaccio da cucinare, è buono da mangiare, è giusto. Suscitando il pensiero che nella realtà ci sia una giustizia, e lo sguardo di Roberta riesca a coglierlo. Nei suoi ritratti di donne emerge un tema fondamentale: l’attesa. Nel ritratto che si intitola appunto L’attesa il tormento della donna è detto con intensità e rispetto, grazia. Nei suoi ritratti Roberta è delicata e profonda. Sembra immaginare della donna tanti aspetti, intimi e segreti, e non li rivela. Ci svela solo un punto, un nodo fondamentale: il loro sguardo carico di nostalgia. La donna quasi sempre ha lo sguardo rivolto alla finestra, o alla porta, o all’orologio. Qualcosa deve succedere, deve accadere. Le donne ritratte da Roberta sono concentrate, riposano, ma non sono veramente rilassate: non sono mai tranquille, aspettano la vita che può ricominciare, ricomincia, burrascosa, l’attimo dopo. Una donna si sta truccando allo specchio, si sta preparando, forse è sera, per una cena, una festa, e la sé stessa riflessa nello specchio la guarda, sospendendo il tempo, la guarda con una domanda, che potrebbe essere: chi sei? Anch’io mi chiedo chi sono queste donne, le loro storie, da Cabirie o da Angeliche. In ogni volto, in ogni attimo, la somma dei significati è infinita. Guardando i ritratti di Roberta vengono in mente i numerosi ritratti di donne di Edward Hopper (che in genere ritraeva sua moglie). Donne sole che guardano dalle finestre, e luce. E, forse, basta. Hopper è sicuramente un maestro per Roberta (ricordo con che entusiasmo ammirava le sue opere esposte a Milano a Palazzo reale nel 2009-2010). Hopper è un genio, che non mi consola. Invece Roberta mi consola, perché mi fa vedere che c’è tutto in ogni cosa: in un pezzo di tovaglia e in una cipolla a metà. Sono grata a Roberta perché mi fa commuovere della brillantezza curva delle tazze, e mi fa pensare che la realtà sia buona, e valga la pena chinarsi a raccogliere l’uva per il vino nuovo come faceva, con mani meravigliosamente rugose e antiche, sua nonna.
Marina Sangiorgi